Giuseppe Menozzi
Pittore
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Pittore
Artista
Scultore
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Pittrice
Neurologo Liberale
Testimonial
Psicologa Clinica
Pittore
Padre/Sacerdote
di Massimiliano Sabbion
“Immaginare qualcosa, rappresentarla, fa di noi
degli uomini.
L'arte è conferire senso e forma.
È
come la ricerca religiosa di Dio.”
(Gerhard Richter)
Vedere. Imparare a vedere significa andare oltre il semplice guardare, al di là del meccanismo ottico della
visione: aprire gli occhi, in un atto semplice e naturale, è decodificare le forme e i colori, è percepire le
immagini, è riuscire a riconoscere il visibile attorno.
Se l’uomo guarda, l’artista vede e si spinge oltre la mimesi e il reale, non riproduce solo ciò che si apre
allo sguardo, ma indaga, scruta e ricrea l’immagine attraverso la fantasia, per mezzo della sensibilità e
nell’atto creativo immette il pensiero che distingue il “guardare” dal “vedere”.
Gli occhi decodificano ciò che viene proposto e si impara ad assaggiare visivamente un quadro, una scul- tura,
un oggetto e un’idea che si rivelano essere la prima vera sensazione istintiva ed emotiva.
Per l’arte contemporanea spesso la vista non è l’unico mezzo per comprendere appieno ciò che si vede. Udire
non è sentire, vedere non è guardare, si richiede, infatti, uno sforzo maggiore per annoverare tra le
esperienze sensoriali quello che è poi presentato ai sensi.
Non sempre ciò che si sente è piacevole, non sempre ciò che si vede è stimolante.
Per questo il mondo contemporaneo è fatto di sensazioni, di carezze impalpabili che stimolano i sensi per
arrivare, attraverso gli occhi, nell’anima di chi osserva e le sensazioni scaturite sono poi differenti: per
mezzo dei sensi il piacere e il suo contrario passano spesso tramite gli occhi.
Anche un quadro si può intendere con altri impressioni e la vista è il biglietto d’ingresso, ma gli stupori si
propagano oltre la tela, è in gioco la sinestesia delle emozioni che arrivano a coinvolgere ed avvolgere lo
spettatore in maniera armonica e appagante, ed è in questo modo che scaturiscono dialoghi non per- cepibili
tra l’opera d’arte, il suo esecutore e lo spettatore.
La rivoluzione dell’arte contemporanea parte da lontano, dal 1874, quando un gruppo di giovani artisti
chiamati poi Impressionisti coglie l’attimo di ciò che si vede e lo fissano in un’immagine sulla tela alla
ricerca della sensazione il più veritiera possibile della realtà circostante che, anche nella sua staticità,
ri- sulta essere sempre mutevole per luce, tempo, atmosfera. (1)
Qualche anno dopo si passano poi le porte del secolo successivo e dall’impressione si approda all’espressione,
manifestata attraverso i colori, gli stati d’animo, i cambiamenti epocali e gli artisti emergono con la sola
forza del sentire interiore.
Perché è importante fotografare questi passaggi? Perché è l’essenza legata non solo alla riproduzione delle
cose, ma è alla base della ricerca artistica dei decenni successivi fino ad approdare ad una mescolanza di
generi e tecniche che porteranno l’arte odierna ad un confronto con il passato per un presente vivo, attivo e
che si proietta verso un futuro in continuo divenire.
È in questo contesto che si inserisce il lavoro di Nadia Fanelli, tele che diventano preziose e curate non
solo nella forma e nel cromatismo, ma nello studio di quella struttura così tanto studiata nei secoli,
sezionata, scoperta, ricomposta, disgregata e frantumata e infine sciolta per apparire agli occhi di chi è
coinvolto nella visione e nella decodifica di un linguaggio tanto complesso quanto affascinante.
Nelle tele dell’artista l’oggetto è cosa incerta, il suo stato fisico suggerisce che qualcosa è al di là del
mondo contingente, è una dissoluzione fisica che si presenta all’osservatore, la sua realizzazione è la
dissolvenza di una forma che diventa un’altra forma, morfologicamente cambia, evoca ricordi, gioca
ambiguamente con la mente.
Un soggetto rappresentato da Nadia Fanelli non è mai privo di spunti e riflessioni: la cura nella scelta di
ciò che si raffigura, la tecnica usata, la scomposizione visiva, la ricercatezza dell’effetto visuale, la
piacevolezza correlata tra la materialità e la fluidità composta nella dissolvenza contribuiscono a rendere
prezioso il risultato finale.
La scomposizione ottica di colore e forme è da ricercare già negli studi e nei riflessi dell’ultimo periodo
artistico di Claude Monet e negli artisti del Neoimpressionismo, dove sono riequilibrati i diversi elementi
secondo le leggi dell'irradiamento, del contrasto e della degradazione con i risultati di artisti quali
Georges Seurat, Henri-Edmond Cross e Paul Signac.(2)
Il colore si scinde e la forma negli anni seguenti comincia a mutare e scopre nuove dimensioni legate allo
spazio e al tempo: dal Cubismo al Futurismo la materia si muove, si disgrega e ricompone fino al suo completo
discioglimento nel mondo onirico metafisico e surreale. (3)
La base rimane la realtà dalla quale attingere le forme e i colori, anche quando la stessa realtà si fa non
riconoscibile e astratta: nel “Primo acquerello astratto” (1910), Vasilij Kandinskij decide, volontariamente,
di eliminare qualsiasi riferimento al mondo fisico lasciando spazio a macchie, segni e linee senza un
significato logico, se non la celebrazione e rappresentazione di se stessi. (4)
Mutazioni e scomposizioni sciolgono la materia e la trasformano anche attraverso la fotografia che sperimenta
un nuovo modo di intrecciare e ricomporre l’immagine per mezzo di sovrapposizioni, sfumature, leggerezze
visive che disgregano la sostanza.
Il modus operandi di Nadia Fanelli fa tesoro delle esperienze del passato e delle ricerche degli artisti che
hanno tracciato la strada per l’indagine ora condotta dall’artista che, in continua esplorazione, mette in
discussione lo stato fisico delle cose che emergono.
I suoi lavori appaiono come sogni in una bolla di sapone: ovattati e fragili, ma allo stesso tempo ricchi di
sfumature e di giochi di luce, di innesti e compenetrazioni con lo spazio circostante, l’immagine è risolta
con un gioco di riflessi e liquefazioni che si combinano oltre lo stato fisico sfidando le leggi di gravità e
arrivando a dissolversi dalla forma originale alla nuova rappresentazione, propagando così un flusso continuo
che spinge chi guarda a cercare un dialogo tra la superficie della tela e il mondo esterno. Questo nostro
pianeta è ora un territorio globalizzato fatto di contatti e comunicazioni che collegano ogni essere umano che
non riesce però spesso a decifrare e a decifrarsi perso nel caos di un universo fatto di silenzi urlati, di
social network pronti ad abbattere le distanze e le connessioni, di velocità e frenesia in cui spesso
immagini, suoni, odori si accavallano o perdono nella moltitudine e i pensieri fluttuano nell’etere
sublimandosi e scomparendo.
Ecco quindi la rappresentazione liquida di mondi quotidiani di Nadia Fanelli che mette a fuoco l’aria che
circonda i ricordi, scandaglia in un cielo capovolto le figure che vivono in spazi indefiniti che diventano
tutt’uno con gli ambienti, emergono immagini come pozze d’acqua riflessa, si percepiscono canti eterei rivolti
alle nuvole, si rimane avvolti alle folle indistinte e combacianti allo spazio circostante, si riconoscono poi
singoli personaggi invischiati al tempo e allo spazio e il tutto è captato dalla resa pittorica dell’artista.
Il pennello della pittrice scivola tra i colori e le resine traslucide quasi a impreziosire e laccare le
immagini di sognatori che guardano il cielo ad occhi aperti come immersi nell’acqua dove, spalancando lo
sguardo, riescono finalmente a vedere le cose anche se appaiono disgiunte dalla realtà. Mondi liquidi si
aggrovigliano e confondono, le forme si innestano coi colori e liquefatti appaiono ora la memoria, i sogni e
lo svolgersi dei pensieri, la realtà sfugge alle definizioni e ai limiti imposti, metamorfosi cromatiche ed
istanti percettivi rivelano ad un secondo sguardo il flusso del divenire e la natura fisica delle cose
permeata di simbolismi e metafore compositive. Se Salvador Dalì dipinge “La persistenza della memoria” (1931)
fluidificando gli oggetti presenti con la presenza di orologi molli, simbolo dell’elasticità degli istanti
vissuti, il tempo raffigurato nelle tele di Nadia Fanelli si fa ancora più dilatato, è ambiguo e discontinuo.
(5)
Si riconosce l’attimo colto e l’eternità della memoria ed ecco che nei suoi lavori persistono im- magini
desunte e riconosciute dal passato, si riconducono alla mente elementi identificabili per rimettere insieme
quei pezzi snodati dalla dissoluzione della materia e distinguere così il soggetto dipinto.
“Rendo le forme sfocate per far sì che tutto sia importante e non importante allo stesso tempo. Le rendo
sfocate perché non sembrino artigianali o artistiche, ma tecnologiche, lisce e perfette. Sfoco perché tutti
gli elementi si mescolino. Forse sfoco anche le informazioni non necessarie e superflue” nell’affermazione di
Gerhard Richter si ritrova la summa dell’arte degli ultimi decenni in costante tensione e confronto tra la
realtà dell’oggetto del dipinto e la realtà di ciò che è invece dipinto.(6)
Illusione e realtà, immaginazione e creazione, sono i filtri con i quali agisce la pittura in un co- stante
rapporto tra mimesi e fantasia ed è lo stesso rapporto legato ad un vedere tangibile che si riscontra nella
ricerca di Nadia Fanelli dove la sua ricerca scompone l’immagine per tuffarla in un nutrimento fatto di
leggerezza e trasparenza, di aria e acqua e da qui il pennello si immerge tronfio di luce e di colore per
restituire un’immagine eterna e riconoscibile ora e sempre.
La sensazione visiva delle sue tele si fa anche tattile perché si innesca la voglia di toccare le su- perfici
così levigate e lucide rese con sapiente uso e destrezza, l’occhio finalmente scruta oltre il visibile, si
ricongiunge e riappacificano l’anima e la mente tra ciò che si è finora solo guardato con ciò che invece, ora,
si vede.
(1) L’Impressionismo è il primo movimento contemporaneo che
utilizza la fotografia come mezzo per la pittura e aprirà le strade alla contaminazione tra i due generi per
tutte le Avanguardie artistiche successive. La prima manifestazione si tenne il 15 aprile 1874, presso lo
studio del fotografo Felix Nadar, alla quale parteciparono Edgar Degas, Claude Monet, Berthe Morisot,
Pierre-Auguste Renoir, Alfred Sisley e altri. Il nome del nuovo movimento si deve a Louis Leroy, critico
d'arte del giornale “Le Charivari”, che definì la mostra Exposition Impressioniste, prendendo spunto dal
titolo di un quadro di Claude Monet, “Impression, Soleil levant”.
M. SCHAPIRO, L’Impressionismo. Riflessi e percezioni, Einaudi, Torino 2008
(2) Il Neoimpressionismo è un movimento pittorico ispirato
alla ripresa delle teorie dell'Impressionismo, chiamato anche Impressionismo scientifico. Nasce dalle
riflessioni della "Société des Indépendants" presieduta da Odilon Redon e composta da Henri-Edmond Cross,
Léo Gausson, Charles Ongrand, Hippolyte Petitjean, Albert Dubois-Pillet, Théo van Rysselberghe, Georges
Seurat, Paul Signac. Il termine fu coniato dall'editorialista Félix Fénéon sulla rivista"L'Art
Moderne" del 19 settembre 1886, e poi ripresa in un proprio saggio sul movimento.
P. MARTORE (a cura di), Félix Fénéon. Neoimpressionismo. Un'estetica scientifica,
Castelvecchi Editore, Milano 2016
M. FERRETTI BOCQUILLON (a cura di), Seurat, Signac e il Neoimpressionismo, Skira,
Milano 2008
(3) M. DE MICHELI, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 2014
(4) L’unico esempio di pittura astratta ci viene offerto
proprio da Kandinskij quando parla del suo unico e “Primo acquerello astratto” del 1910 e di un’esperienza
che ha il sapore dell’aneddoto creato ad hoc per i posteri: il ritorno a casa dell’artista che, una volta
varcata la soglia, non riconosce un suo quadro in quanto poggiato a terra e capovolto, tanto da non
decodificare le forme e confonderne i significati. Quindi la forma astratta è un non riconoscimento della
realtà o il punto di partenza è proprio la realtà di fondo? A quanto pare entrambe le cose...
“Il sole tramontava; tornavo dopo avere disegnato ed ero ancora tutto immerso nel mio lavoro, quando aprendo
la porta dello studio, vidi davanti a me un quadro indescrivibilmente bello. All’inizio rimasi sbalordito, ma
poi mi avvicinai a quel quadro enigmatico, assolutamente incomprensibile nel suo contenuto, e fatto
esclusivamente di macchie di colore. Finalmente capii: era un quadro che avevo dipinto io e che era stato
appoggiato al cavalletto capovolto. [...] Quel giorno, però, mi fu chiaro che l’oggetto non aveva posto, anzi
era dannoso nei miei quadri.”
W. KANDINSKIJ, Punto, linea, superficie. Contributo all'analisi degli elementi pittorici,
SE, Milano 2017
(5) La persistenza della memoria (in catalano La
persistència de la memòria) è un dipinto a olio su tela (24×33 cm) del surrealista spagnolo Salvador
Dalí, realizzato nel 1931 e conservato al Museum of Modern Art di New York.
È lo stesso Dalì a raccontare la gestazione dell'opera in Vita segreta:
“E il giorno in cui decisi di dipingere orologi, li dipinsi molli. Accadde una sera che mi sentivo stanco e
avevo un leggero mal di testa, il che mi succede alquanto raramente. Volevamo andare al cinema con alcuni
amici e invece, all'ultimo momento, io decisi di rimanere a casa. Gala, però, uscì ugualmente mentre io
pensavo di andare subito a letto.
A completamento della cena avevamo mangiato un camembert molto forte e, dopo che tutti se ne furono andati, io
rimasi a lungo seduto a tavola, a meditare sul problema filosofico dell'ipermollezza posto da quel formaggio.
Mi alzai, andai nel mio atelier, com'è mia abitudine, accesi la luce per gettare un ultimo sguardo sul dipinto
cui stavo lavorando. Il quadro rappresentava una veduta di Port Lligat; gli scogli giacevano in una luce
alborea, trasparente, malinconica e, in primo piano, si vedeva un ulivo dai rami tagliati e privi di foglie.
Sapevo che l’atmosfera che mi era riuscito di creare in quel dipinto doveva servire come sfondo a un’idea, ma
non sapevo ancora minimamente quale sarebbe stata.
Stavo già per spegnere la luce, quando d’un tratto, vidi la soluzione. Vidi due orologi molli uno dei quali
pendeva miserevolmente dal ramo dell’ulivo. Nonostante il mal di testa fosse ora tanto intenso da tor-
mentarmi, preparai febbrilmente la tavolozza e mi misi al lavoro. Quando, due ore dopo, Gala tornò dal cinema,
il quadro, che sarebbe diventato uno dei più famosi, era terminato.”
C. BROOK, Dalì, in Dossier d'art, Giunti Editore, Firenze 2000, p.43
S. DALÍ, Diario di un genio, SE, Milano 2008
(6) H. U. OBRIST (a cura di), Gerhard Richter. La pratica quotidiana della pittura, Postmedia Books, Milano 2005